La Conferenza di Wannsee
Anche quest’anno il 20 gennaio verrà ricordata a Berlino e non solo la ricorrenza della Conferenza di Wannsee.
75 anni fa, Il 20 gennaio 1942, alle 10 di mattina, quindici importanti rappresentanti dello stato nazista si ritrovarono fuori Berlino presso il lago di Wannsee per decidere della “soluzione finale della questione ebraica” (Die Endlösung der Judenfrage). Questa espressione venne utilizzata durante la conferenza per affrontare quello che nella Germania del razzismo e dell’odio antiebraico era divenuto uno dei problemi fondamentali “da risolvere”: la presenza di popolazioni ebraiche nell’Europa occupata (e da occupare) da parte dei nazisti. A 73 anni di distanza sappiamo che la Soluzione finale fu sicuramente la questione centrale della conferenza ma che al tempo stesso essa fu il risultato di una pluralità di decisioni e atti politici fatte dai nazisti ben prima dell’incontro di quel 20 gennaio.
Leggendo il protocollo della conferenza, si ha come l’impressione di stare davanti ad un testo molto elaborato, quasi aleatorio. Il linguaggio pur essendo chiaro nel suo contenuto (ovvero quello della pianificazione della soluzione finale per come oggi la conosciamo), è al tempo stesso fortemente segnato da una sorta di burocratese, ovvero da parole e termini molto neutrali.
Uno dei passaggi più significativi del protocollo, alla pagina 6, (dove per intenderci si parla proprio delle deportazioni finali e delle selezioni per come verranno effettuate anche ad Auschwitz), per indicare la morte certa di migliaia di prigionieri, data la condizione inumana delle deportazioni e delle razzie, si parla di “natürliche Verminderung” = “diminuzione naturale” del numero delle persone, quasi che l’essere deportato in condizioni estreme in campi di concentramento e la successiva morte non fossero altro che conseguenze necessarie, naturali quasi normali.
Questo linguaggio formale in realtà tradisce un aspetto fondamentale di quella conferenza ovvero il fatto che i quindici uomini presenti non erano semplici antisemiti bensì rappresentanti politici e della polizia molto importanti. Tra di loro spiccavano, oltre a Reinhard Heydrich, capo del Servizio di sicurezza del Reich e promessa indiscussa del Nazismo, i responsabili diretti di vari uffici della Polizia, delle amministrazioni militari come i segretari di stato di tre importanti ministeri (Giustizia, Esteri, Interni).
Una della sorprese più scioccanti per i turisti, quasi 400.000 all’anno, che ancora oggi vengono a visitare il centro museale, è rendersi conto di come alla conferenza non fossero presenti ne Hitler nè Himmler: questo è un problema annoso per gli storici e per gli stessi tribunali che dopo la guerra ebbero il compito di processare i criminali nazisti tra cui alcuni presenti anche alla conferenza. Di chi fu la responsabilità dell’Olocausto se Hitler non era presente alla stessa conferenza? Come si può comprendere la Soluzione finale, senza considerare la responsabilità di Hitler? Effettivamente non sappiamo dove fosse Hitler quel giorno; quello che però deve essere fatto è riflettere sul fatto che la Soluzione finale non venne presa appunto da un pazzo antisemita in un giorno di rabbia omicida ma venne sottoscritta e discussa da interi settori dello Stato e degli apparati di Polizia che altro non facevano se non “il loro lavoro”. Considerare l’assenza di Hitler significa capire la vera dimensione complessiva della persecuzione antiebraica, “affare di stato” appunto e risultato di una integrazione e collaborazione tra uffici.
La storiografia odierna ci offre gli strumenti adeguati per capire la complessità dell’Olocausto a partire da quei tanti elmenti di ordine strategico, politico e sociale; su tutti rimane però l’aspetto della responsabilità ultima di quello scempio, quella responsabilità discussa da Hannah Arendt nel suo “La banalità del male”, libro inchiesta nato dal processo nel 1962 a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann, presente lui stesso alla conferenza.
La questione della banalità del male sollevata da Hannah Arendt riguarda la possibilità che questi 15 signori presenti alla conferenza in realtà non stessero che facendo appunto il “loro lavoro” senza chiedersi quale fosse l’obiettivo complessivo della società per cui stavano lavorando ovvero la distruzione di minoranze e gruppi “non ariani”, su tutti la comunità ebraica.
Al giorno d’oggi i 15 signori presenti alla conferenza noi li chiamiamo e li indichiamo come “criminali di Guerra” senza ombra alcuna ma la domanda di Hannah Arendt sta li ancora a interrogarci e riguarda la possibilità e il modo per ogni cittadino di essere responsabile quindi consapevole della situazione politica e sociale dentro cui lui lavora e è attivo.